Angela Troilo Interviews Enrico Nicolò
Angela Troilo intervista Enrico Nicolò
Ho conosciuto Enrico Nicolò due anni fa in occasione di una sua mostra personale. Da questo incontro è nata una profonda collaborazione lavorativa che mi ha permesso di scrivere e parlare di lui. L’impressione mia è quella di un fotografo esistenziale intimista, fotografo di pensieri, stati d’animo e sensazioni. Predilige il bianco e nero ma non disdegna il colore.
Oggi sono seduta davanti a lui nel suo studio con fotografie, qualche acquerello sulle pareti e un libro su una sedia.
Tante le domande che affollano la mia mente.
L’elemento più importante del tuo carattere?
Una sensibilità molto accentuata, forse. Che mi espone a grandi sofferenze. Perché fissa molto in basso la mia “soglia del dolore esistenziale”. Soprattutto nelle relazioni con le persone, difficoltà o piccoli eventi negativi non di rado sono in grado di procurarmi significativi dispiaceri e delusioni. Il rischio è che io interiorizzi troppo le problematiche. Mi consolo un po’ pensando che se non avessi questa sensibilità percettiva esasperata, che mi fa notare tante cose, e che mi rende a volte inquieto e mi pone spesso in uno stato di solitudine, forse non sarei un autore in campo artistico.
Quale è stato il tuo primo scatto?
Per risponderti esattamente dovremmo andare a guardare nei miei archivi. Volendo darti una risposta immediata, direi che probabilmente il mio primo scatto andrebbe cercato tra alcune foto in bianco e nero di formato quadrato fatte nelle Marche quando avevo una decina d’anni, scattate con la fotocamera medio formato a soffietto Zeiss Ikon Nettar 517/16 regalatami da mio padre.
Che cos’è per te la fotografia e quanto di te c’è nelle foto che fai?
La fotografia è per me un mezzo espressivo fondamentale. Oggi tutta la mia produzione fotografica è di fatto autobiografica. In maniera più o meno esplicita e più o meno marcata. Penso tuttavia che i miei sentimenti, i miei stati d’animo trasposti nelle immagini possano essere riconosciuti da ogni osservatore, il quale ha modo di ritrovarsi in essi. Perché le condizioni dello spirito che descrivo visivamente sono stati dell’essere universali, comuni cioè a tutti gli individui.
Quali elementi la differenziano dalle altre forme d’arte?
Il discorso al riguardo sarebbe molto lungo. Colgo solo un aspetto, premettendo che parlo di una fotografia non manipolata, non post-prodotta. La fotografia, per quanto preparata preventivamente anche in termini di “messa in scena”, come è buona parte della mia stessa produzione artistica, al momento dello scatto si caratterizza per essere un atto sintetico, generalmente istantaneo. La maggior parte delle altre forme d’arte, invece, richiede gesti creativi di tipo iterativo, ricorsivo, che agiscono per accumulazione, che spesso consentono una seconda e una terza “chance” e magari ancora altre possibilità additive e correttive, come è il caso del pennello che scorre lentamente sulla tela e deposita strati successivi di materia. La variabile “tempo di esecuzione”, insomma, gioca un ruolo determinante insieme all’irreversibilità e spesso all’irripetibilità dell’azione fotografica, una volta compiuta.
Che cos’è per te la bellezza e quali requisiti deve avere una fotografia per potersi definire bella?
La Bellezza, per me, ha a che fare col Bene e col Vero, cioè con l’autentico. Una ragazza può essere bella non solo per il suo aspetto estetico, ma anche e soprattutto per quello che le si legge negli occhi, dunque nel cuore. Sono anzitutto la nobiltà d’animo, la grazia e la dolcezza che fanno bella una donna. Per la stessa ragione, se mi consenti, prendendo peraltro spunto da una famosa frase di Tiziano Terzani, e adattandola alla mia poetica ed estetica, preferirei rispondere alla seconda parte della domanda dicendoti che per me una fotografia è buona quando è l’immagine di un’idea eticamente valida, bella e autentica. E dico autentica, che è davvero molto, molto di più di originale.
Il giorno più felice della tua vita?
Non so risponderti. Ammetto che mi trovi impreparato. Potrei forse dirti il giorno in cui mi sono fidanzato con Monica, mia moglie, dopo una strenua corte da parte mia. Oppure il giorno in cui ci siamo sposati, o il giorno in cui è nato Marco, il nostro primo figlio, o il giorno della mia laurea. In realtà, mi viene spontaneo associare picchi di felicità a momenti sospensivi, istanti cioè in cui ho distintamente percepito il desiderio che il tempo si fermasse. Si è trattato di momenti brevi, rari, di pace assoluta all’interno di me stesso e in relazione alla realtà intorno a me, come quando in un giorno lontano, in una particolare circostanza, riflettevo sul fatto di avere davanti a me l’imminente morte di mio padre malato e mi trovai a desiderare che quell’istante di serenità potesse prolungarsi un po’. In altre parole, la felicità più intensa per me non è solo legata al realizzarsi di eventi straordinariamente belli, ma ha anche a che fare sia col godere di ogni cosa messa a nostra disposizione nel tempo che ci è dato, sia con l’accettazione della volontà di Dio.
Da alcuni mesi ti sei avvicinato alla pittura mediante la tecnica dell’acquerello. Questo è un modo per “allontanarti” dalla macchina fotografica o senti la necessità di nuovi stimoli artistici?
Per me il punto essenziale non è fare fotografie, bensì comunicare qualcosa, una sensazione, un sentimento, una condizione esistenziale, un messaggio. E fare ciò, ovviamente, in forma artistica. Il mezzo tecnico, pur non essendo secondario, viene dopo. In questo senso, l’avvicinamento alla pittura e l’adozione dell’acquerello non costituiscono per me un allontanamento dalla fotografia. Rispondono a una precisa esigenza che ho provato. Quella di superare alcuni limiti espressivi della fotografia. Mi spiego. Anche se, come sai bene, con la mia serie fotografica a colori Photoblurrygraphs ho realizzato numerose immagini evanescenti, tendenzialmente astratte, mediante l’uso dello sfocato, del mosso creativo, della sovraesposizione e della sottoesposizione, resta sempre il fatto che, al momento dello scatto, davanti all’obiettivo della macchina fotografica hai inevitabilmente una realtà oggettiva, che in qualche misura prescinde da te e può essere fuori del tuo controllo. L’acquerello mi consente invece di mettere direttamente su carta quello che ho nella mia mente, senza doverlo andare a cercare specchiato nel paesaggio, ritraendolo con la macchina fotografica e dovendo accettare a priori una certa approssimazione rispetto a quanto inizialmente immaginato. Potremmo dire che per alcune, particolari operazioni espressive di tipo concettuale e astratto l’acquerello mi offre alcune possibilità in più, soprattutto in termini di autonomia.
Cosa pensi del mondo in cui viviamo?
Non voglio minimamente pormi tra i “laudatores temporis acti”, ma penso che il mondo di oggi stia da un lato attentando alle radici della vita e dall’altro abbia ulteriormente smarrito il senso del “male”, finendo col chiamare “bene” il male. Non credo che possano determinarsi miglioramenti sostanziali nella società umana, dal livello locale a quello sovranazionale, se a mutare non è il cuore dell’uomo. La coscienza del singolo. Il mondo dell’arte, quale sottoinsieme della realtà in cui siamo immersi, presenta sovente gli stessi tormenti, le stesse ambiguità e le stesse storture del sistema globale in cui viviamo. Ritengo che la mia sia una visione realistica, non pessimistica. Per me prevale comunque la speranza, poiché credo che tutti siamo chiamati all’interno di un progetto di redenzione.
Altra tua grande passione è la scrittura. Scrivi da quando eri ragazzo e proprio recentemente hai pubblicato il libro di racconti “Il sole brilla alto”. Questo è un modo per scrivere i tuoi scatti?
Trovo che sia molto bella l’espressione che hai usato: “scrivere i miei scatti”. Complimenti! E ti ringrazio per aver ulteriormente arricchito con ciò il lessico critico relativo alle mie opere. Ed è anche un’espressione molto vera. I miei racconti e le mie poesie, come tu stessa hai egregiamente rilevato in passato, procedono per immagini, così come le mie fotografie assai spesso intendono essere liriche e raccontare dell’essere umano. In qualche modo ritorna quello che dicevo in precedenza. A me interessa primariamente narrare di me e dell’uomo. La forma espressiva, ovvero il mezzo espressivo viene dopo. Eventualmente il dilemma diventa allora questo: quale mezzo tecnico è meglio che io impieghi per descrivere e comunicare un mio determinato stato d’animo? La fotografia, l’acquerello, la poesia, il racconto o magari un saggio letterario? Ma questo è tutto un altro discorso.
Quale fotografo e quale scrittore preferisci?
Per me non ci sono attualmente fotografi o scrittori preferiti. Piuttosto ci sono fotografie e brani od opere letterarie che mi hanno profondamente colpito e influenzato più di altri. Magari costituendo essi addirittura i punti iniziali di riflessioni che mi hanno poi portato a progettazioni artistiche concrete. Se però ci tieni al fatto che io faccia almeno un nome per categoria, senza troppo pensarci su posso citarti Robert Doisneau tra i fotografi e Luigi Pirandello tra gli scrittori.
Alcuni critici hanno paragonato la tua arte fotografica a quella di Mark Rothko, grande esponente dell’espressionismo astratto. Analizzando i tuoi lavori pensi ci sia qualche influenza artistica?
Anzitutto grazie per l’accostamento a un gigante come Mark Rothko. Ti rispondo prendendola apparentemente alla lontana. Siamo quotidianamente bombardati da una numerosità impressionante di immagini. E chi è nel mondo dell’arte ogni giorno guarda e ammira una grande quantità di lavori, di artisti maggiori e minori. Grazie anche alle nuove tecnologie di comunicazione, le opere interessanti, più o meno celebri, che vediamo giornalmente, risultano innumerevoli. Sono dell’avviso che queste immagini si sedimentino dentro di noi, specie se ci hanno colpito positivamente e non ci hanno lasciati indifferenti. E non riusciremo in alcun modo a conoscere quanto ciascuna di queste, magari partendo da un livello pressoché inconscio, finirà per incidere successivamente sulle nostre scelte artistiche, teoriche e operative. Personalmente, mi ritengo debitore nei confronti di un’ampia pluralità di opere, come dicevo precedentemente, prima ancora che verso specifici artisti. Tuttavia, anche in questo caso, se devo fare qualche nome spaziando tra vari campi, dal cinema alla pittura, attraverso la fotografia, potrei menzionare Sergio Leone, Federico Fellini, Michelangelo Antonioni, Ingmar Bergman, Charlie Chaplin, Mario Giacomelli, Caspar David Friedrich, Edward Hopper.
Sei cristiano? Se sì, qual è il “tuo” comandamento?
Sì, sono cattolico, praticante. Vivo da oltre quarant’anni la mia esperienza di fede nel Cammino Neocatecumenale. La Chiesa ci insegna che alla fine della vita saremo giudicati sull’amore. Allora, usando il tuo linguaggio, il “mio” comandamento, che è cercare di essere affabile e gentile con tutti, si rifà a un’affermazione, per me centrale e assolutamente folgorante e decisiva, della Beata Madre Teresa di Calcutta: «Che nessuno venga mai da te, senza andarsene migliore e più felice. Tutti dovrebbero vedere la bontà nel tuo volto, nei tuoi occhi, nel tuo sorriso. Non sapremo mai tutto il bene che un semplice sorriso può fare».
Anno 2016
(Angela Troilo è storica dell'arte, curatrice, collaboratrice museale, operatrice culturale e operatrice specializzata nel restauro)