An Introduction by Andrea Attardi
Un'introduzione di Andrea Attardi
Enrico Nicolò, un fotografo inspiegabile La fotografia, all’inizio di questo nuovo secolo, sembra vivere più che mai una fase di incertezza. Eppure vi è un’offerta di eventi inarrestabile, con un esercito di nuovi attori sulla scena: i loro portfolio non perdono una tappa dei vari festival italiani ed europei. Grazie al digitale un ruolo democratico della fotografia ha trovato maggiore espansione, e le cantine si sono via via riempite di vaschette e ingranditori. Provocando una mutazione genetica dei linguaggi e della filosofia del fotografare: prova ne sia che la rivalità tra il reportage (custode dell’ortodossa rappresentazione umanistica del reale) e le nuove forme di ricerca concettuale è giunta ad un punto di tensione molto acuto. Ne consegue che la fotografia è probabilmente l’unica disciplina in grado di poter colmare il divario fra le nuove generazioni di autori e i più celebrati maestri dell’immagine. Koudelka? Quasi inutile conoscerlo. Le foto? Perfino con gli smartphone e in condivisione sul web. Insomma, quello che ruota intorno al mondo della fotografia assomiglia di più ad un’orgia collettiva, dove è facile dimenticare e fagocitare mostre, libri, fiere e convegni. Lungi dal credere alla funzione salvifica della pellicola, è però lecito dubitare che le nuove tendenze emerse possano classificarsi sotto il termine di avanguardie artistiche: non contestano alcunché ma anzi, talvolta, sposano alla perfezione un sistema dell’arte chiuso, dove l’opera è solo un riferimento narcisistico di se stessa. In origine fu Andrè Malraux, sulla scia di Walter Benjamin, a prevedere lo stravolgimento che le nuove tecniche di riproduzione avrebbero portato in seno all’idea di creazione. Infatti la fotografia di oggi appare più un modo di cavalcare le mode e, con un mezzo fotografico omologato tecnicamente e che delega molto ad una postproduzione, corre il rischio di sfociare in una forma di arte “fittizia”. Di qui la difficoltà per un autore a trovare una propria collocazione autonoma in tale marasma. Anche il pubblico ne è confuso: un senso d’inquieta aspettativa avanza quando ci si appresta a visitare una mostra. Se poi capita di osservare la produzione fotografica di Enrico Nicolò, un autore finora semi-nascosto dalla ribalta chiassosa, allora l’inquietudine si fa straniamento e sorpresa. E tutto convoglia verso una domanda dalla raggelante nudità: perché? In fotografia rare volte si può chiedere perché. Sì può con un personaggio decisamente inclassificabile come Mario Giacomelli, ad esempio. Perché quest’uomo è stato così e ha prodotto delle visioni incapibili ai più? Dove religione, amore, morte e solitudine sfondano le mille corazze con le quali non vediamo più l’essenza della vita? In nuce, le immagini di Enrico Nicolò palpitano di tale sconvolgimento. Sono infatti inspiegabili, non rientrando in quelle categorie e sottocategorie che la fotografia impone: nessun effetto scioccante e nulla delle trasformazioni pittorico-digitali più in voga. Le anamnesi della pittura però, Nicolò dimostra di averle filtrate, se in alcuni capitoli del suo lavoro (come “Oltre il caos”, “Oltre l’infinito sublime” e la serie dei “Photoblurrygraphs”), simbolismo e impressionismo viaggiano in una molteplicità di percezioni; talvolta riconducibili alla sfera dell’inconscio se guardiamo un uomo che scrive, suona o brandisce una vanga immerso nel mare o sognanti illusioni se le ombre e i riflessi degli ulivi aprono una finestra sul fantastico. Non è dunque un reportage e nemmeno un’operazione di furbo maquillage stilistico: questo autore è completamente disancorato da tutti quegli schemi che generano ormai l’appiattimento dello sguardo. Perché riesce a fotografare ciò che abitualmente egli e noi pubblico non vediamo. Fotografare quello che non si vede. Invero l’esercizio più complicato data l’alluvione di immagini (per l’appunto fotografiche ma anche televisive o pubblicitarie) che ha ottenebrato la nostra capacità di visione. Le sue figurazioni sono invece atemporali, cioè in una dimensione che può non avere un luogo o una datazione. Senza presente, eppure intrise di una ricerca verso un altrove. Un altrove dove la pressione di un contesto (il caos, appunto) viene superata attraverso un’operazione emotiva di non semplice caratura, perché sottintende uno status di rara consapevolezza interiore. La fotografia di Enrico Nicolò è un positivo controsenso. Egli riesce con un sistema tradizionale (pellicola b/n o all’infrarosso, sviluppo chimico del negativo, stampa ai sali d’argento) a mostrare i suoi universi esistenziali. Esplorandoli nella presenza umana, non incidente all’obbiettivo, ma custodita nella spazialità del paesaggio. Incredibile, perché la fotografia analogica è sempre stata sinonimo di lunghi sforzi e spostamenti, e quasi mai ha svelato i mondi interiori di un fotografo. Ma, al contrario, ha sempre teso con prepotenza a voler “dimostrare” qualcosa a tutti i costi: volti annientati, guerre, disgrazie, o un banale folklore retoricamente antropologico. Non però la vera anima dell’autore. Nicolò invece compie le sue migrazioni per trovare un “oltre” che altro non è che la liberazione dai macigni materialistici della nostra sfera contingente. Se vi rimaniamo dentro, votati verso un’irrimediabile corsa verso il nulla, è solo un gioco al massacro in un vortice autodistruttivo. E’ la caducità della natura a fare da scenario alla spiritualità del fotografo: nella terra venata dalle ragnaie dei fili d’erba, nelle acque immote delle grandi vasche lagunari, o nel mare screziato da lievi onde, trova pacificazione quel tormento che è proprio del nostro mal di vivere. Ma è soprattutto di luce che godono queste immagini. I cieli tersi, talvolta diafani, si segmentano in un orizzonte dagli incerti equilibri, dove l’alternanza delle ombre definisce meglio “l’infinito sublime” che la veduta d’insieme restituisce. Va altresì annotato che la collocazione dell’elemento umano, con cappello, impermeabile o con un abito ottocentesco, può apparire come un esercizio estraniante se non volutamente provocatorio, nella misura in cui l’effetto surreale tende a divenire entità onirica. Di qui il parametro ineludibile della memoria che traspare nelle opere di Enrico Nicolò, e del quale è doveroso tener conto per il suo peculiare carattere magico; questa sorta di “incantesimo” fotografico non pretende di modificare il mondo che è stato o che è fuori di noi, ma i nostri concetti che riguardano il mondo quelli sì, è in grado di trasfigurarli. Non foss’altro per gli elementi della scala e del muro, simboli-chiave della sua ultima mostra personale “Oltre il caos”: camminare per scoprire, elevarsi per vedere al di là di una barriera, ritrovare le verità smarrite. Eppure, in queste immagini non vi è quella tristezza conclamata che è poi fondamento del fotogiornalismo. Al contrario esse appaiono come un antidoto alla malinconia. Ed è raro che la fotografia, nata, cresciuta e nutrita per bloccare il presente e tramandarlo nelle sue manifestazioni più terribili, possa invece rovesciare tale consuetudine. È nella serie “Photoblurrygraphs” che questo ribaltamento trova la sua più felice intuizione. L’ambito precedente, quello in bianco/nero del pensiero teorico-esistenziale, lascia il posto al colore ed alle sue sublimazioni percettive. Svincolandosi da un altro teorema che molteplici filosofie fotografiche antepongono: ovvero quello del nitore assoluto e del fermo immagine senza movimento alcuno. Innestandovi però una rappresentazione grafica che disegna l’evanescenza e l’indistinzione dei confini, della vista, dei contorni e della riconoscibilità. Operazioni (il fuori fuoco e il mosso), oggi ampiamente sfruttate come gioco di ipersaturazione dei colori, riconducendo spesse volte l’immagine ad una sorta di perbenismo pittorialista quasi al limite della caricatura. Non avendo i “Photoblurrygraphs” nessuna intonazione drammatica, essi paiono riaccompagnare lo spettatore alle visioni dell’infanzia, dove la sensorialità non è ancora assaltata dalle strutturazioni inessenziali di uno sguardo adulto. Impressionismo della prima vita? Sì, se come in questo caso i colori sfumati riportano ad una nebulosa di ricordi, senza la “certezza” razionale dell’osservazione ordinaria. Sono dunque molteplici i motivi della diversità che rendono Enrico Nicolò un fotografo inclassificabile. Perché si colloca al di fuori della rigidità nella quale è incagliato il dualismo della fotografia di oggi: un realismo dai contenuti accademici da un lato, e un’oleografia della trasformazione digitale dall’altro. Il primo continua ad ostentare un primato stanco, con la rendita di un glorioso passato ormai in esaurimento; la seconda rischia il più delle volte di avvitarsi in una labirintica autoreferenzialità. Tale inclassificabilità non va certo intesa come un agire ambiguo dell’autore, ma anzi è prova di unicità per il fatto di uscire dalla suddetta logica di schieramento. Sarà senza dubbio la sua solitudine di viandante in questo tempo per noi così accidentato, a segnare l’evoluzione artistica di questo fotografo magicamente inspiegabile. 4 aprile 2012 Andrea Attardi Andrea Attardi è fotografo, scrittore, critico fotografico, docente di Fotografia presso l'Accademia di Belle Arti di Roma. |
Enrico Nicolò, an inexplicable photographer At the beginning of this new century, photography seems more than ever to be going through uncertainty. And yet events are flourishing relentlessly, with a host of new actors taking the stage, their portfolios never missing a festival, be it Italian or European. The democratic role of photography has been spreading thanks to the digital revolution, and basements are being filled with trays and enlargers. A genetic mutation of the languages and philosophy of photography itself has followed: the proof of it is the rivalry, which is reaching its highest level, between reportage (the professed guardian of an orthodox humanistic representation of reality) and new forms of conceptual research. As a consequence, photography is probably the only discipline able to bridge the gap between the new generations of authors and the more celebrated masters of the image. Knowing about Koudelka? Almost worthless. The photos? They are even shot with smart phones and shared on the web. All that revolves around the world of photography seems more of a collective orgy, where it is easy to forget and swallow up exhibitions and books, fairs and conferences. Far from believing in the redeeming power of the film, it is nonetheless legitimate to doubt that the recent trends can be considered as artistic avant-gardes: they challenge nothing, on the contrary, they sometimes seem to fit perfectly into a closed art system, where the work is no more than a narcissistic reference to itself. André Malraux, following Walter Benjamin, was the first to predict the revolutionary impact that the new techniques of reproduction would have on the way of conceiving the artistic creation. Indeed, today’s photography seems more like a means of keeping up with the latest fashions. As technically homologated instruments rely more and more on postproduction, photography is liable to become a “fictitious” art. Consequently, authors encounter increasing difficulties in finding an autonomous place in such chaos. The public is no less confused: an uneasy expectation sets in whenever approaching an exhibition. And the uneasiness may even turn into alienation and astonishment if one comes across the photographic works of Enrico Nicolò, an author who has so far remained half hidden from the blinding spotlight. And in the end, it all comes down to a stunningly simple question: why? Rarely in photography is it possible to ask why.It is, for example, with an utterly unclassifiable figure like Mario Giacomelli. Why was this man like that and why did he produce visions that are inaccessible to most? In which religion, love, death and solitude break the barriers that prevent us from seeing the essence of life. The pictures of Enrico Nicolò throb with the same subversive potential. They are indeed inexplicable, falling outside the categories and subcategories imposed by photography: no shocking effects, no trendy digital transformations. However, in some sections of his work (such as ‘Beyond the chaos’, ‘Beyond the sublime infinite’ and the ‘Photoblurrygraph’ series) Nicolò certainly proves to have reminiscences of painting. Here, symbolism and impressionism are present in multiple perceptions, either evoking an unconscious dimension when we see a man writing, playing music or holding a pickaxe whilst knee-deep in the sea, or hinting at dreamy visions when the shadows and reflections of olive trees give access to the fantastic. Equally distant from the style of reportage and the world of photo touch-ups, this author clearly breaks away from all the ways of representation that lead to a narrowing of the view. In fact, he succeeds in photographing what he himself and we as a public usually do not see. He photographs the unseen. Not an easy task indeed, considering the flood of images – not only from photography, but also from TV and advertising – that has clouded our vision. His representations are, instead, atemporal. They exist in a spaceless and timeless condition, without present. And yet their research is directed towards an elsewhere. An elsewhere where the pressure of the context – chaos – is overcome through a far-from-simple emotional process implying a profound self-knowledge. Enrico Nicolò’s photography is a positive contradiction, as he manages to convey his own existential universe with traditional means – black-and-white or infrared film, chemical development of the negative, silver printing. He then explores these inner worlds through the human presence, which does not arrogantly invade the frame, but is instead spatially merged with the landscape. Such an achievement is somehow incredible, especially since analogue photography has always been synonymous with long efforts and travels, and has rarely disclosed the inner life of the photographer. Its purpose has rather been to forcefully “demonstrate” something, whatever the cost, showing desperate faces, war, adversities, or a worn-out anthropological folklore, but not the author’s true soul. The wanderings of Nicolò are instead aimed at finding a “beyond”, which is no other than the liberation from the heavy chains of our materialistic existence. To remain within this dimension would mean to be dragged into a self-destructive spiral, inevitably caught up in a race towards nothing. The spirituality of this photographer has the frailty of nature as a background: in the earth streaked with grass blades, in the still waters of the vast coastal basins, in the sea rippled by gentle waves, our distress and world-weariness are relieved. But mostly, these images are filled with light. The clear, at times diaphanous skies draw uncertain horizons, with shadows carefully depicting the “sublime infinite” revealed by the overall view. Furthermore, the presence in these sceneries of the human subject wearing a hat, a raincoat or nineteenth-century clothes serves an alienating purpose, if not a deliberately provocative one, producing a surrealism which borders on the dreamlike. In the works of Enrico Nicolò, memory becomes an essential element and one deserving special attention, owing to its peculiarly magical character. A sort of photographic “spell” does take place, although no attempt to change the outside world is made. What can indeed be transfigured is the way in which we see the world. This is achieved through the key-symbols of the ladder and the wall, so central to the author’s last personal exhibition “Beyond the chaos”: walking in order to discover, rising to see beyond a barrier, recovering lost truths. Yet, these pictures do not express the manifest sadness which is the trademark of photojournalism. Quite the opposite, they seem to act as an antidote to melancholy. And it is rare that photography, which was born and raised to arrest the present and deliver it in its most terrible manifestations, may upset this tradition. It is in the “Photoblurrygraph” series that this overturn is best accomplished. Here, the black-and-white world of theoretical and existential thought gives place to colour and the triumph of visual perception. Another basic tenet of many photographic philosophies, that of absolute clarity and a still freeze frame, is given up in favour of a graphic representation characterised by vanishing boundaries, hazy views and vague contours. Today, photographic techniques such as the out of focus and the creative motion are widely exploited as high-colour saturation games, thereby reducing the image to an almost caricature-like exercise, the fruit of a sort of bourgeois pictorialism. Instead, the “Photoblurrygraphs” have no dramatic quality, they rather seem to take the observer back to childhood visions, in which perception is not yet affected by the detached structuring of the adult view. Is this early-life impressionism? It surely is, if, as in this case, the blurred colours conjure up a mist of memories, deprived of the rational “certainty” of the ordinary eye. The reasons for Enrico Nicolò’s distinctiveness that make him an unclassifiable photographer are therefore manifold. Indeed, he places himself outside the rigid dualistic division of today’s photography: realism with academic traits on the one hand, and the oleographies of the digital transformation on the other; the former at pains to exhibit what is now a declining supremacy, as the legacy from its glorious past is quickly dying out; the latter often running the risk of ending up in pointless auto-referentiality. However, the unclassifiable position occupied by this author must not be regarded as ambiguous. On the contrary, by distancing himself from the above-said either-or logic, he shows his uniqueness. Without doubt, it will be his loneliness as a walker through such troubled times to mark the artistic evolution of this magically inexplicable photographer.
Andrea Attardi is a photographer, writer, critic and Professor of Photography at Accademia di Belle Arti di Roma, Italy. |