A Conversation with Enrico Nicolò

Conversazione con Enrico Nicolò

 

Enrico35

 

Come è avvenuto il suo incontro con la fotografia?
Fotografo dall'età di dieci anni, da quando mio padre mi lasciò usare la sua macchina fotografica di medio formato a soffietto, una Zeiss Ikon Nettar 517/16. Da allora non ho più smesso, anche se la svolta autoriale, come si usa dire, è avvenuta molti e molti anni dopo quell'inizio, ormai in piena età matura.

 

Come è accaduto questo cambiamento?
È stato come un evento rivelatore, forse non facilmente identificabile nel tempo, ma sicuramente tale da farmi dire che per me esiste un prima e un dopo di quel momento. È avvenuto quando ho scoperto che, per scrivere, potevo usare la macchina fotografica, così come avevo fatto fin lì con la penna o col computer. Precedentemente avevo pubblicato alcuni racconti e pensieri e alcune poesie. Ora potevo impugnare la mia reflex analogica anni '70 per raccontare me stesso e per ritrarre quello che sentivo dentro. È stato un punto di non ritorno. Da quel momento ho iniziato a cercare i paesaggi che meglio rappresentavano i miei sentimenti, le mie sensazioni e, in un certo senso, le mie idee, esigenze e aspirazioni. Sono quasi di colpo passato da un certo tipo di fotografia-finestra, descrittiva e documentaristica, che guarda verso l'esterno, a una fotografia-specchio, soggettiva, intimista, che riflette il di dentro del fotografo e che cerca all'esterno condizioni ed elementi che raffigurino al meglio la realtà interiore della persona.

 

La sua è allora oggi una fotografia autobiografica?
Lo è senz'altro, marcatamente e nella quasi totalità della mia produzione artistica, ma, allo stesso tempo, oso affermare che la mia fotografia può essere riguardata, tra virgolette, come universale, nel senso di tranquillamente e ampiamente condivisibile, perché le mie fotografie, in fondo, vogliono semplicemente parlare dell'uomo, delle sue realtà più profonde, della solitudine esistenziale, della caducità, della sofferenza, della morte. Realtà ineludibili, comuni a tutte le persone. Di maggiormente personale, per così dire, aggiungo, pur accanto a una vena malinconica, il senso della speranza, uno sguardo che si spinga oltre il visibile, oltre lo spazio e il tempo, appunto verso i tempi ultimi, in una tensione che chiamerei escatologica. E questo è indubbiamente legato alla mia esperienza di fede. In sintesi, la mia è una fotografia esistenziale.

 

Come fa a trovare nel mondo esterno gli elementi giusti, quelli che rappresentano efficacemente nelle sue fotografie tutte queste convinzioni e realtà interiori?
Io vengo dal paesaggio. E già il mio paesaggio, reso col potere astrattivo e drammatizzante del bianco e nero, disabitato e scarsamente antropizzato, spesso desolato, vasto e punteggiato da pochi elementi, è in grado di esprimere il senso di solitudine interiore che è compagno dell'uomo e che mi preme porre in evidenza. Questo, insieme al desiderio, che ho, di comunicare la bellezza e il bisogno di un ordine, e insieme anche al voler soffermarmi sullo scorrere del tempo, sul passaggio delle generazioni e sulla memoria.
Ma poi affido la rappresentazione di realtà interiori più complesse alle differenti modulazioni di impiego della figura umana all'interno del paesaggio stesso. Questa, peraltro, è la parte preponderante della mia attuale produzione artistica.

 

Potrebbe spiegare con maggor dettaglio questo punto?
Dicevo prima che alcune mie fotografie sono immagini di paesaggio puro, in cui l'individuo non compare, anche se la sua presenza è non di rado tradita da qualche traccia antropica lasciata dal suo passaggio, spesso lignea o di pietra. Ma nella maggior parte delle mie foto compare la figura umana, assolutamente solitaria, uomo o donna. Figura, di cui non si conosce mai il volto. Questa presenza ha un carattere simbolico, codificato di volta in volta differentemente, a seconda della postura della persona, del suo atteggiamento, dell'abbigliamento, dello scenario e di altri particolari. La mia poetica, in questo modo, può trovare forma e stile concretizzandosi in alcune tipologie base di rappresentazione o messa in scena, che corrispondono ad altrettanti miei temi fotografici.
Così, in “Solitudine del viandante del tempo” troviamo affrontate le problematiche interiori di fondo di cui parlavo in precedenza, insieme agli aspetti legati al viaggio esistenziale e alla meta della vita. Nelle fotografie relative a questo tema le persone, sole, sono riprese di spalle in contesti ambientali, contemporanei e realistici, spesso lungo un sentiero o una strada, o in riva al mare.
In “Oltre l'infinito sublime”, invece, le figure, soprattutto femminili, riprese da tergo, sono abbigliate, di fatto, come nella prima metà dell'Ottocento. Sono solitarie, spesso piccole all'interno di spazi sconfinati, più o meno minacciosi. Qui c'è un richiamo fortissimo alla bellezza, un elogio della donna, un inno al rispetto della sua dignità. Gli orizzonti diventano infiniti. Lo sguardo è davvero invitato a varcare i confini del visibile, auspicandosi con ciò anche un certo superamento della tragicità dell'esperienza romantica.
In “Oltre il caos” l'individuo è rappresentato con ironia e fa cose spiazzanti, in contesti, a dir poco, improbabili. C'è infatti l'uso di dispositivi di retorica visiva e viene appositamente effettuata una dislocazione semantica. Qui si vuole riflettere sulle attività elementari dell'uomo, sulla necessità di ritorno a una semplicità originaria, sull'importanza della ricerca della verità per la persona e su altre cose ancora. Un personaggio in impermeabile e con cappello, per esempio, se ne va in giro per il mondo portando con sé una scala e, spesso al di qua di un ostacolo, guarda la realtà che gli è davanti da posizioni sopraelevate apparentemente incomprensibili. La simbologia è abbastanza ricca.
I significati sono tanti anche nel tema “Tempora et horae”, dove pure un uomo e una donna, sempre singolarmente e separatamente, appaiono nuovamente improbabili all'interno di ampi scenari naturali, marini, rurali e montani, mentre il tempo scandisce le loro azioni. In toni ancora un po' surreali e vagamente metafisici, oltre che ironici, qui, insieme al riguardare il tempo, ora come compagno, ora come nemico, e insieme alla riflessione, sia sulla quotidianità, sia sulle fasi della vita, l'accento è soprattutto posto sulla fine del tempo e sul tempo che non muore. Sulla vita eterna.

 

C'è qualcosa che accomuna tutti i suoi temi?
È il senso dell'oltre, prima di tutto. Da un lato condivido infatti l'idea di coloro che pensano che la fotografia, o meglio, che almeno un certo tipo di fotografia artistica debba in fondo tendere a mostrare ciò che non si vede. A farlo immaginare. Dall'altro, personalmente, la fotografia mi interessa più come mezzo che non come fine, e a me preme proprio contribuire a indicare che c'è un oltre cui guardare. Che si può puntare lo sguardo al di là della finitezza dell'uomo, delle cose, del mondo, del tempo e dello spazio. Questo cerco di farlo oggi con la fotocamera, come ieri lo facevo di più con la scrittura, ma, in definitiva, non c'è differenza. Infatti, il mio motto personale preferito è “Fotografo perché ho qualcosa da scrivere”.
E, poi, l'altro aspetto trasversale a tutti i miei temi è la bellezza, la ricerca della bellezza. Senza arrivare a citare necessariamente Dostoevskij, penso che l'uomo abbia un'urgente e insopprimibile necessità di bellezza. Che lo sostenga e lo elevi. Lo aiuti a fargli apprezzare la creazione e a esserne partecipe. Che contribuisca a fargli ritrovare se stesso e la pace. E, secondo il mio sentire, lo avvicini agli altri uomini e a Dio. La bellezza è essa stessa una via. Per questo sono tra quelli che sperano vivamente che la frattura avvenuta nel Novecento tra arte ed estetica si possa al più presto saldare affinché la bellezza torni ad alimentare nuovamente la mente e il cuore dell'uomo.

 

Dalle sue parole emerge l'importanza, per lei, di un messaggio da associarsi all'espressione artistica. Ritiene che sia effettivamente così?
A me interessa fare arte. Ma, più di questo, mi interessa comunicare qualcosa di vero, di buono e di bello, cosa che cerco di fare in modo artistico. Quando poi dico “comunicare qualcosa di vero”, ovviamente intendo il “vero” non tanto in senso di “realistico”, poiché l'arte è per definizione “artefazione”, bensì, piuttosto, nel senso di “autentico” e di qualcosa che avvicini alla verità. Ritengo peraltro che nell'arte sia più giusto cercare prima ciò che è “autentico” anziché ciò che è meramente originale, affinché, tra l'altro, non sia accreditata ogni stranezza, anche quando di cattivo gusto, offensiva e non etica.
Tuttavia, nonostante l'importanza che riveste per me la comunicazione di un contenuto all'interno dell'espressione artistica, non tutta la mia produzione è concettuale e simbolica. Per esempio, alla fotografia a colori affido più frequentemente la sfera delle emozioni, delle sensazioni e delle percezioni. La razionalità cede allora il passo. La progettualità si fa meno schematica. Ciò che non viene meno è però la ricerca della bellezza.

 

Possiamo allora dire che la sua produzione a colori è più libera e liberante?
In parte è vero. Più in generale direi che il mio stesso approdo alla fotografia è stato l'esito di un percorso di liberazione o semplificazione. Intendo dire che io, per professione, sono ingegnere, e che ho trascorso la mia vita lavorativa assicurandomi, per così dire, che i conti tornassero, tra formule e teoremi. Né le cose sono state profondamente diverse quando, specie in passato, mi sono dedicato alla scrittura, poiché il perfezionismo dello scrivere è un padrone assai esigente. L'avvicinamento alla fotografia autoriale è stato, in questo senso, un processo di semplificazione liberatoria, sebbene sia costretto ad ammettere che le mie messe in scena fotografiche siano a volte così complesse da richiedere anche lunghi mesi di progettazione e preparazione. Resta però per me comunque vero che lo scatto fotografico analogico, alla fine, costituisce un'azione “sintetica”, che non richiede estenuanti iterazioni ricorsive. Se volessi essere detrattore di me stesso potrei al riguardo concludere che l'approdo stesso alla fotografia è stato per me una sorta di resa, se non di sconfitta, di fronte alla constatazione del costo altissimo della perfezione, spesso presunta, dichiarata necessaria in altri campi. Ma se di resa si è effettivamente trattato, è stata, appunto, felicemente liberatoria.

 

Nel panorama artistico della fotografia contemporanea alcune sue scelte appaiono un po' controcorrente. Se ne preoccupa?
Ho un altro mio motto che dice: “Io vado per la mia strada. E del mio passo.” Mi piace a tal punto che mi sono divertito a tradurlo in inglese: “I go my way. And I keep up my pace.”.

 

Tornando alla sua professione ingegneristica, pensa che il suo mestiere abbia inciso sul suo modo di fare fotografia?
Una volta, a una mia personale, un visitatore, osservando le foto in esposizione, mi disse che si vedeva che sono ingegnere. Non so bene cosa intendesse dire. Immagino che si riferisse principalmente a un certo tipo di ordine compositivo.
Personalmente penso che l'ingegneria mi abbia trasmesso il senso della precisione, della progettualità e della costruzione. Oggi mi trovo a pensare le mie opere in termini di serialità e durevolezza. L'individuazione degli scenari adatti e le relative messe in scena ormai sono quasi sempre l'esito di progetti di lungo corso. Mi sono trovato a dirigere scene vivendo probabilmente sensazioni analoghe a quelle proprie di un regista cinematografico che segue un copione. Ciò corrisponde a un altro momento di passaggio, ovvero quello da un ruolo più passivo, di fruitore di film, a una funzione proattiva di progettista di set fotografici in spazi naturali aperti e, di conseguenza, di artefice di immagini di finzione scenica. In altre parole, da spettatore di film non potevo ovviamente diventare regista cinematografico, ma a poco a poco da autore delle mie foto sono divenuto anche regista delle stesse.

 

Partendo proprio da queste sue ultime affermazioni, cosa può dire in merito al rapporto tra la sua fotografia e il cinema?
Sono un appassionato di cinema, specie quello del passato. Per esempio, quello in bianco e nero, anche muto. Sebbene non sia in grado di dire bene perché e in quale misura, mi sento molto riconoscente nei confronti di grandi maestri come Chaplin, Keaton, Bergman, Antonioni e Leone. Ma anche nei confronti di pittori, in particolare Friedrich. Forse, guardando indietro, mi sarebbe più facile individuare, nel caso dei film, quella tale scena, o quell'altra, che mi è rimasta indelebilmente nella memoria, concorrendo poi ad attivare processi creativi.

 

Quando lei scatta le sue fotografie e, in particolare, quando pone in essere i suoi set fotografici all’aperto, in riva al mare come in montagna, opera sostanzialmente da solo o si avvale di persone che la aiutano?
Le situazioni di scatto sono di vario tipo. Non di rado opero da solo, spesso utilizzando un treppiedi, specie per le esposizioni prolungate. Ma altrettanto frequentemente sono in compagnia di una persona che mi fa da assistente e che mi offre il suo valido aiuto. Fino a non molto tempo fa ho perfino potuto contare sulla disponibilità di mia madre, che ancora riusciva a starmi accanto sui terreni meno impervi e accidentati e che, comunque, provvedeva almeno a presidiare l’automobile, che molte volte funge da campo base per l’attrezzatura. Tuttavia, è stata ed è tuttora mia moglie l’assistente più assidua al mio fianco. Anzi, non ho problemi ad ammettere che il ruolo di mia moglie, come assistente, è prezioso e davvero molto importante, poiché decisamente marcato e diversificato, sia nella varietà delle mansioni, che nel livello di complessità delle attività stesse. Lei spazia, infatti, dall’assistenza agli apparati, sul campo, ai consigli tattico-strategici, dalla supervisione dei file digitali delle immagini, che derivano dalla scansione dei negativi o delle stampe ai sali d’argento su carta baritata, fino alla gestione del mio sito web di fotografia. Quando rifletto su questo, il mio pensiero va inevitabilmente all’esperienza di Harry Callahan. Trovo che tutto ciò sia molto bello, anche perché questo aggiunge una dimensione privata, di coppia, all’esperienza fotografica artistico-autoriale, arricchendo di ricordi personali, talora aneddotici, immagini che sbarcheranno nel sistema dell’arte divenendo opere fruibili dal pubblico. Insomma, tanto per fare un esempio, solo io e mia moglie sappiamo, ed è normale, inevitabile e giusto che sia così, quali erano le circostanze specifiche e la situazione contestuale in cui ho scattato quella certa fotografia che ha poi vinto quel tale “award” internazionale su quella certa rivista americana.
Non c’è peraltro da meravigliarsi più di tanto di questa conduzione a sfondo familiare della mia attività fotografica, viste le risorse limitate a disposizione, soprattutto economiche, e i tempi che corrono.
Un’altra persona che mi offre volentieri il suo aiuto professionale è mia cognata, sorella di mia moglie. A lei, costumista, devo, in particolare, la messa a punto degli abiti di scena e la realizzazione di particolari oggetti che appaiono nelle mie foto.
Quando i set fotografici sono complessi e prevedono la presenza in scena di varie persone, cosa che tuttavia avviene raramente, mi avvalgo di figuranti occasionali, generalmente reperiti nella cerchia familiare.

 

Immagino che questo gioco di squadra, mi consenta di chiamarlo in questo modo, si estenda anche ad altri soggetti. Esterni, intendo dire. È così?
Senza dubbio sì. Pur non potendosi parlare di un team o di uno staff, possiamo comunque dire che si è di fatto costituita una rete di relazioni, definibile curatoriale, in senso lato, oltre che produttiva, che si arricchisce nel tempo di nuove persone. C’è chi cura le mie mostre, ci sono gallerie che seguono da vicino il mio operato, non solo a Roma, dove anche espongo i miei lavori. Per le stampe delle fotografie mi servo di laboratori fotografici professionali. Vivo è poi il rapporto con i critici d’arte e di fotografia. Esistono poi contatti col mondo dell’editoria. E sussiste pure una relazione con associazioni culturali del mondo della fotografia e dell’arte in generale. Anche il contatto con altri fotografi artisti è attivo e, in particolare, faccio parte di un gruppo di ricerca artistica e sono socio dell’U.C.A.I., l’Unione Cattolica Artisti Italiani, e di Officine Fotografiche.

 

Cos'è per lei oggi la fotografia? Lo dica con una battuta, al di là delle difficili definizioni.
Il quinto occhio e mezzo. Porto gli occhiali, per cui sono un quattr'occhi. Il quinto occhio è quello delle mie fotocamere. E il mezzo? Lei dirà. È che ci sarebbe pure un sesto occhio, l'obiettivo di visione della mia biottica Rolleiflex, che peraltro non uso molto, per cui, alla fine, lo conto solo per metà.

 

Lei scatta preferibilmente in 35 mm?
Oggi sì, quasi esclusivamente, utilizzando quattro o cinque fotocamere reflex analogiche pressoché uguali, che condividono la stessa dotazione di obiettivi. Si tratta di macchine fotografiche professionali degli anni '70 e '80, all'epoca ammiraglie di una nota casa costruttrice giapponese.

 

Mi consenta di riandare ancora una volta un passo indietro. Lei, per mestiere, esattamente fa il ricercatore scientifico. Questo, così come il fatto di essere ingegnere, orienta in qualche modo specifico il suo approccio alla fotografia?
La risposta è sicuramente sì. A parte il fatto che mi sono occupato di ricerca scientifica anche in merito all'impiego delle figure retoriche visive nel campo del linguaggio della comunicazione fotografica, cosa che mi ha pure consentito di produrre una lunga serie di immagini, parte delle quali è stata mostrata in una mia personale fotografica, per rispondere alla sua domanda direi che la mia fotografia è improntata alla ricerca sostanzialmente per tre aspetti. Il primo, semplicemente, è che vivo l'arte in sé come un momento di ricerca. Il secondo è che, nei contenuti che tendo a esprimere, i personaggi presentati, le figure umane, sono non di rado alla ricerca di qualcosa, da trovare o ritrovare, come l'inesplorato, l'inosservato o il perduto, oppure l'essenza della vita e delle cose. Il terzo è che mi trovo ad approcciare la fotografia nella stessa maniera con cui conduco da circa trent'anni il mio primo mestiere. Quindi, disciplina, metodo, passi studiati, verifica dei risultati, identificazione delle vie di diffusione più adatte, attenzione data alle pubblicazioni e così via. Insomma, si tratta anche un po' di avere spirito di organizzazione e di diventare imprenditori di se stessi, tanto per rimanere nell'ambito di una terminologia ingegneristico-aziendale.

 

Pensa che la fotografia possa dare a un artista soddisfazioni ulteriori rispetto a quelle, ovvie, relative alla raccolta dei risultati in termini di notorietà o successo?
Premesso che per me il punto fondamentale non consiste nel successo, che peraltro dipende anche da una serie di circostanze a volte fortuite e incontrollabili, bensì risiede, semmai, nella riconoscibilità come artista, o, meglio ancora, nella consapevolezza personale di fedeltà a un'etica e ai propri canoni poetico-estetici, la risposta è senz'altro affermativa. E le soddisfazioni stesse possono essere di varia natura. Anzitutto, la coscienza di una propria identità, che poi può diventare identificabilità da parte degli altri. E tale identità è anche un antidoto in un mondo dove, per così dire, è difficile sopravvivere quando si acquista consapevolezza del dramma della solitudine esistenziale che non risparmia nessuno e dei seri problemi relazionali legati all'alterità. Naturalmente, l'identità o identificabilità di cui stiamo parlando non è certo limitata all'arte, ma è applicabile a ogni attività umana che configuri una fisionomia professionale o un'esperienza riconosciuta.
Poi, della gratificazione che deriva dall'essere artefice di un'opera abbiamo già parlato.
Un'altra grande soddisfazione che può dare la fotografia, e l'arte in generale, è quella di poter comunicare se stessi, i propri stati d'animo, le sensazioni, i pensieri, un messaggio, la propria testimonianza e, come dicevamo prima, la bellezza, cose, tutte, che, in varia misura, in fondo tradiscono il nostro bisogno, basilare ed essenziale, di amare e di essere amati. Bisogno, questo, spesso assai nascosto, ma che in realtà muove molte cose, nella vita e nell'arte, così come l'idea della morte e il timore di essere dimenticati.
È ovvio che, strettamente legata alla precedente, c'è una soddisfazione di base, quella di poter liberare la propria creatività. Lasciare che l'ispirazione artistica più profonda trovi espressione e forma. Ma, questo, è fin troppo scontato e banale.

 

Lei, come fotografo artista, pur vivendo le sue soddisfazioni, si trova, in un certo senso, sostanzialmente a soffrire nel lungo, complesso e faticoso processo di gestazione delle sue opere o, almeno in qualche fase, se mi permette di usare questa espressione, scopre di potersi anche divertire?
Qualcuno sostiene, giustamente, che l'arte sia anche ludica. Sarebbe un bel problema se non ci fossero i margini per divertirsi. Personalmente, nel fare intenzionalmente arte sono ben contento di poter coltivare al contempo la mia antica passione di scattare fotografie, esercitando la tecnica e mantenendo interesse nei confronti degli apparati che uso.

 

A questo proposito, qual è l'importanza che lei dà alla tecnica fotografica nella sua produzione artistica?
Indubbiamente la padronanza della tecnica è molto importante per la buona riuscita di un'opera. Ma, a mio avviso, la risposta ultima alla domanda viene da un'affermazione illuminante di William Eugene Smith: “A cosa serve una grande profondità di campo se non c’è un’adeguata profondità di sentimento?". Condivido a tal punto questa asserzione che riportai questa citazione sulla brochure della mia prima mostra fotografica personale.

 

Riguardo alle mostre, come vive il rapporto con il pubblico dei visitatori?
Una volta che un'opera è rilasciata allo sguardo dell'osservatore, egli interagisce con l'opera stessa secondo il proprio universo interiore e il suo immaginario e anche attraverso la sua concreta esperienza personale della vita. Vari fatti e aneddoti me lo testimoniano. Ne consegue che le considerazioni dei visitatori non di rado sono decisamente interessanti e aggiungono perfino qualcosa di plausibile che nemmeno l'autore dell'opera aveva originariamente pensato. Se l'artista ha l'umiltà di fare propria la riflessione dell'osservatore, l'opera stessa, in un certo senso, si arricchisce. È così che ho potuto verificare nei fatti che il rapporto tra opera e pubblico non è a senso unico. Tra l'artista e l'osservatore esiste un canale bidirezionale che rende in qualche modo il pubblico più che compartecipe dell'opera stessa.
Ciò non toglie che a me, come artista, piace, o meglio, urge l'esigenza di rendere noti, generalmente, i significati che una mia fotografia, o una mia serie fotografica, riveste per me che ne sono l'autore.

 

Come attua questo intento?
A parte l'eventuale colloquio diretto con un osservatore che chieda spiegazioni, il mezzo di cui mi servo primariamente è la scrittura. Dicevo inizialmente che amo scrivere. Per qualche anno, su un periodico abruzzese, ho scritto commenti letterari a mie fotografie in una mia rubrica. Su riviste di fotografia e di cultura ho anche redatto più di un articolo sulla mia poetica ed estetica fotografiche, fornendo anche svariati dettagli tecnici. Molte informazioni possono poi essere trovate sul mio sito web di fotografia. Infine è altresì molto importante, al riguardo, la comunicazione che si svolge nella mia rete di relazioni, di cui parlavo in precedenza, che coinvolge diversi soggetti, tra cui curatori, galleristi e critici d'arte e di fotografia.

 

Questo suo desiderio di comunicare la sua personale interpretazione delle sue opere non contrasta con quanto asserito da coloro che affermano che un'opera d'arte deve poter parlare da sola?
A parte il fatto che altri artisti si comportano o si sono comportati alla mia stessa maniera, ritengo che non siano poi molti i campi in cui valgono regole assolute. L'arte, sicuramente, non è uno di questi. Anzi, l'esperienza acquisita nel mondo dell'arte mi ha dolorosamente dimostrato che è bene diffidare soprattutto di coloro che si mostrano assolutisti e rigidamente sicuri delle loro verità. Penso che l'importante, nel proporsi come artisti, sia non essere normativi e impositivi. Si può tranquillamente dire la propria, e se ne ha a maggior ragione diritto come autori, ben sapendo che l'interpretazione e l'effetto suscitati da una nostra opera potranno essere molto diversi da quelli immaginati o attesi. Ben venga questo. Come dicevo prima, ciò non farà altro che conferire valore aggiunto all'opera. Personalmente, ho grande stima e rispetto per il pubblico e sono convinto di poter imparare qualcosa da chiunque, tanto è vero che le due osservazioni più interessanti e toccanti da me udite alle mie mostre personali sono state la prima di una signora molto anziana, che di fronte a una mia fotografia di una persiana fatiscente si sentiva suscitata a rievocare momenti duri dei tempi di guerra, e l'altra di un bambino che, con disarmante semplicità, forniva di una mia foto concettuale un'interpretazione brillantissima che nessun altro adulto era riuscito a formulare.
Ritornando comunque al punto in questione, e sintetizzando, un'opera d'arte può sì parlare da sola. E consuetudine vuole, giustamente, che sia accompagnata dal commento dei critici. Ma se talvolta le si associa anche la parola dell'autore, questo, a mio avviso, non costituisce una rottura delle regole e non è certo a detrimento dell’opera.

 

Qualche grande maestro della fotografia ha per caso costituito un modello per la sua personale visione e produzione fotografica?
Mi sento eventualmente più debitore verso il cinema che verso la fotografia, almeno al momento attuale. Indubbiamente ci sono dei fotografi artisti, specie del passato, che sento molto più vicini di altri e che possono in qualche modo aver contribuito a orientare il mio sguardo. Ma, se proprio devo fare qualche esempio, più che a degli autori in generale, mi viene naturale riferirmi a delle opere specifiche, che ho trovato folgoranti, quali “Pausa” di André Kertész, del 1943, “Lambita dal vento”, ovvero Thérèse Duncan sull'Acropoli di Atene, di Edward Steichen, del 1921, e “Sogno ad occhi aperti alla finestra” di Minor White, del 1958.
Non ho difficoltà a riconoscere, come nel caso di scene cinematografiche, che ci sono state fotografie di maestri che, essendo io di ciò più o meno consapevole, hanno anch'esse contribuito ad avviare alcuni miei processi creativi. Del resto, il bombardamento di immagini cui siamo sottoposti quotidianamente, in maniera volontaria o involontaria, tra tanti esiti negativi produce qualche volta anche un effetto positivo come questo. Lo considero assolutamente normale e regolare.

 

Qualcuno l’ha mai accostata a qualche fotografo del passato o contemporaneo o a qualche altro artista?
Confesso che la domanda mi crea qualche imbarazzo. Preferirei che fossero i critici a esprimersi direttamente in merito. Tuttavia, se lei mi chiede semplicemente di riportare ciò che il pubblico e la critica hanno detto al riguardo, potrei riferirle che c’è stato, per esempio, chi mi ha avvicinato a Ghirri o chi ha ravvisato in alcune mie fotografie certi tratti di Garcin, di Giacomelli e perfino di Nadar. Oppure della fotografia umanista francese o di certa fotografia meditativa di Eugene Smith. Per quanto riguarda i riferimenti relativi al cinema, sono stato soprattutto accostato a Chaplin, Tarkovskij, Antonioni e Tati. Ma le citazioni più frequenti riguardano forse la pittura, in particolare Friedrich e Magritte, poi De Chirico, Burri e Rothko. Sono richiami molto impegnativi, che, sottolineo, riferisco solo come tali. Piuttosto, a me fa molto piacere, e già forse basterebbe, avere letto in un articolo su di me, uscito su una rivista di fotografia, che, guardando in sequenza certe mie immagini, si ha l’impressione di trovarsi in un film d’antan del cinema muto anni Venti. È esattamente quello che sentivo dentro e che, mediante una carrellata di messe in scena fotografiche, desideravo generare e trasmettere e sono felice che sia stato recepito fedelmente.
Tutto ciò può apparire un caleidoscopio di suggestioni anche molto diverse, forse. Ma la cosa, in fondo, non è poi così strana, sia perché dicevamo prima che un osservatore, addetto ai lavori o meno, reagisce in maniera soggettiva di fronte a un’opera, sia, soprattutto, perché la mia produzione artistica è tematicamente e tipologicamente diversificata e contempla sia il bianco e nero che il colore. Né questo significa non avere un’identificabilità, cioè non essere riconoscibili. A questo proposito, infatti, mi rallegrava molto il racconto di una mia amica che, visitando una mostra collettiva in Abruzzo, ignara del fatto che alcune mie opere erano in esposizione, ne aveva immediatamente riconosciuta la paternità senza averle mai viste prima di quel momento. Verificarne l’autore fu per lei solo un atto dall’esito scontato.

 

Lei, che è un fotografo analogico, come vede l'antitesi tra fotografia a pellicola e fotografia digitale?
L'arte della fotografia non è un problema di tecnica. Prima di tutto è una questione di mente, occhi e cuore. Tutto nasce al di qua della macchina fotografica. E quasi tutto continua a giocarsi al di qua del mirino.
Aggiungo, comunque, che del digitale apprezzo in special modo la verificabilità immediata del risultato, l'economicità a regime, la grande utilità per particolari generi di fotografia e la possibilità di gestire in prima persona tutto il processo dallo scatto al risultato finale. Allo stesso tempo, del digitale mi preoccupa il fatto che per effettuare una post-produzione a livello professionale, come sarebbe necessario nel caso della fotografia autoriale, si debba imparare di fatto un ulteriore mestiere.
Inoltre, gli apparati analogici di cui dispongo costituiscono dei sistemi articolati per me noti e consolidati, tali da non farmi desiderare di reimpiantare le mie conoscenze su tecnologie tutte da studiare e, purtroppo, soggette a mutevolezze di mercato troppo frequenti.
Mi sembra poi che si possa ancora affermare che la qualità di ripresa e stampa in bianco e nero dell'analogico rimane l'eccellenza.
E mi rassicura poter avere tra le mani una pellicola sulla quale posso vedere direttamente ciò che ho ripreso al momento dello scatto. Nel caso, poi, della diapositiva, il fotogramma che mi ritrovo a osservare è già il prodotto finale. Se ben conservate, queste pellicole, soprattutto quelle in bianco e nero, possono davvero durare per tanti e tanti decenni. Non ho per nulla la stessa sensazione quando ho in mano un CD che contiene i file di scansione dei miei negativi o delle mie stampe. Mi domando spesso se il computer riuscirà realmente a leggerli. E per quanto tempo ancora lo farà.
La considerazione sentimentale, che in certa maniera riassume queste ultime considerazioni, la leggo direttamente da un mio scritto pubblicato a suo tempo su un periodico: “Perché, alle fotocamere attuali, piene di elettronica, leggere, aerodinamicamente smussate e con finiture in plastica, preferisco le vecchie macchine fotografiche in metallo, robuste, pesanti, meno maneggevoli, ma dall'affidabile meccanica di precisione? Sono sempre stato appassionato di treni e da ragazzo avevo il mio plastico ferroviario con i vagoni e i locomotori elettrici tutti carrozzati in plastica, gli unici che potevamo permetterci. Ma io, in realtà, ero rimasto affezionato alla mia prima locomotiva, una splendida e solida Rivarossi nera di metallo, andata purtroppo presto perduta. Quando oggi impugno le mie massicce Canon F-1, o la mia Hasselblad o la Rolleiflex, quel ricordo d'infanzia mi torna alla mente e scattare foto diviene allora come far correre sicura, per i binari del mondo, la mia vecchia vaporiera.”.

 

Se si trovasse a dover suggerire qualcosa ai giovani fotografi che sperano di affacciarsi come nuovi autori sulla soglia del sistema dell’arte, cosa si sentirebbe di dire loro?
Di non seguire le mode. Di non cercare scorciatoie per il successo. Di non perseguire l’originalità per l’originalità, come dicevo prima, perché questo sa di vuoto e spesso costringe, pur di andare ad appropriarsi di territori mai esplorati da altri, a doverla sparare sempre più grossa, per essere, appunto, originali a tutti i costi. Ciò porta, in altre parole, a certe esasperazioni e assurdità, che, purtroppo, non di rado vengono pure omolgate e spacciate per arte. Questo danneggia tutto il sistema e la società in generale. E fa male all’uomo. L’importante è essere se stessi e, prima di questo, trovare se stessi, essere. Goethe diceva che prima di fare qualcosa bisogna essere qualcosa. Dunque, è necessario avere qualcosa da dire. E poi si può andare a fotografarlo.

 

Roma, 24 febbraio 2013

 

English translation coming soon.